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Intervista a Michel Gondry

Quello dei video di Daft Punk e White Stripes

Di Matteo Franza

Ogni anno anno l’Ambasciata Francese di Roma organizza un festival di cinema che si chiama ‘Rendez-vous’. L’idea è quella di proiettare film francesi in giro per l’Italia. Quest’anno la settimana di proiezioni si è conclusa con un appuntamento molto interessante: l’incontro con Michel Gondry. Ci siamo stati ed ecco come è andata.

Quando eri bambino cosa avresti voluto fare da grande?

Mi sarebbe davvero piaciuto fare l’inventore, ma anche il pittore non sarebbe stato male.

Tu hai iniziato facendo videoclip, qual è il tuo approccio?

In realtà ho sempre cercato di raccontare delle storie, anche quando non esiste una vera e propria storia all’interno delle canzoni. Ricordo che all’inizio bocciavano la maggior parte delle mie proposte, ma per fortuna le scrivevo tutte su di un quaderno, e col tempo sono riuscito a realizzarle. Ma non è che fossero tutte delle buone idee. Ad esempio, da ragazzo facevo il batterista, e montavo i video in base al suono della batteria. Era davvero terribile. Però a parte questo cerco sempre di raccontare una storia e di andare fino in fondo. Nel video dei Daft Punk (Around the world, ndr) ogni gruppo di ballerini rappresenta uno strumento diverso.

E qual è il rapporto che hai con gli artisti?

Dipende, cambia moltissimo da persona a persona. Ad esempio Bjork è una che ha sempre un sacco di idee ed è molto propositiva. I White Stripes invece non aiutano un granché, ma non è che siano disinteressati, diciamo che si fidano.

Qual è stato, se c’è stato, il momento in cui hai capito, o hai deciso, che saresti passato dai videoclip ai film?

Sì, me lo ricordo. Era quando organizzamo la proiezione di uno dei video che feci per Bjork (The Human Behaviour, ndr). Fu in una sala da cinema. Vedere tante persone che guardavano un mio lavoro su di uno schermo così grande mi ha esaltato, e fu lì che decisi che che avrei fatto un lungometraggio

Nei tuoi film mi pare che uno dei concetti ricorrenti sia la difficoltà di comunicare, la difficoltà di conoscere e di comprendere le persone. È un tema che scegli in modo consapevole?

È vero, ma non lo scelgo in modo consapevole. La verità è che sono sempre stato molto timido, e ho sempre avuto molte difficoltà ad esprimermi in pubblico. Ad un certo punto della mia vita mi sono trasferito negli Stati Uniti e il mio inglese era così scarso che l’incomunicabilità diventava un problema pratico. Mi ricordo sempre quando non riuscivo a spiegare a Jack White che avevo in mente di fare un video di loro fatti di Lego (Fell in love with a girl), così invece che parlargli tornai a casa e feci un pupazzo di lui con la testa fatta di Lego e ne fu entusiasta (Fell in love with a Girl, ndr). Ma è sempre stato un problema, anche da ragazzo. Mi capitava di leggere nel modo sbagliato anche gli atteggiamenti che le persone avevano verso di me. Ad esempio una volta una ragazza mi invitò al cinema e lo chiamò ‘date’. Mi aspettavo che mi avrebbe baciato, ma non lo fece, e ci rimasi davvero molto male. Fu lì che iniziai inconsciamente a pensare a ‘L’arte del sogno’.

Che cosa intendi?

Beh in pratica questa ragazza mi piaceva molto. Facevamo tantissime cose insieme, e cercavo sempre di fare in modo che fossero divertenti e interessanti. Io ero innamorato di lei, ma lei non lo era di me, ed è una situazione che mi ha fatto soffrire molto. E come è nata l’idea di fare un film così particolare? Avevo letto come tutti il libro quando ero ragazzo e ne rimasi molto colpito. Questo continuo rincorrersi tra sogno e realtà è molto vicino al mio modo di pensare. Quando si trattò di realizzarlo pensavo che sarebbe stato necessario renderlo il più colorato possibile, e che nella scena finale ci sarebbe stato di colpo il bianco e nero. Volevo che il passaggio fosse immediato, ma allo stesso tempo impercettibile, e per me era assolutamente necessario che fosse così perché non si sarebbe potuto rendere altrimenti un finale del genere.

Che rapporto hai con i tuoi film?

Ad essere sincero ho un rapporto un po’ complicato con loro. Ad esempio, io non sono mai in grado di giudicare se un mio film è bello oppure no. La verità è che fare un film è complesso, e ha dietro così tanto lavoro, così tante avventure e disavventure che quando li riguardo non riesco a non pensare a tutto quello che è successo durante le riprese.

Tu hai portato un’estetica che insiste molto su questo aspetto artigianale, tanto da renderla un tuo tratto distintivo. Che rapporto hai con la tecnologia?

È vero, mi accusano spesso di usare poco la tecnologia nei miei lavori, ma non è affatto vero. Ad esempio nei video che ho fatto per i Chemical Brothers (Let Forever Be, ndr) e i Rolling Stones (Like a Rolling Stones, ndr) l’ho usata. Ma è vero che tengo un po’ le distanze. Ad esempio io vado in giro con questo (tira fuori un cellulare da 30 euro) perché non sopporto il touch screen. Non vivo molto a contatto con la tecnologia, ma lascio che agisca sulla mia immaginazione.

A proposito di estetica, la tua capacità di rendere graficamente le emozioni porta la critica ad accomuniarti spesso con un regista come Spike Jonze. Sei d’accordo?

La prima volta che ne sentii parlare fu da Bjork, mi disse ‘sai Michel, in California c’è un tizio che fa delle cose molto molto simili alle tue, si chiama Spike Jonze’. Mi hanno anche accusato di copiarlo, ma non è affatto vero, anzi, siccome Spike non è qui vi posso raccontare questa cosa: durante la prima di un suo film mi prese da parte e mi disse che alcune scene le aveva fatte pensando ai miei film, quindi in realtà è lui che copia me (sorride, ndr). Ma a parte questo c’è molta stima fra noi, abbiamo un bel rapporto.

Generalmente la critica e i giornalisti attribuiscono ai tuoi lavori molti livelli di interpretazioni e di lettura; è veramente così?

No assolutamente. Trovo che i giornalisti tendano a sovraccaricare di interpretazioni quello che faccio. é come se avessero bisogno di ricondurre ogni mio film a dei temi che secondo loro sono ricorrenti, ma non sono quasi mai d’accordo con loro. E poi, ma parlo piuttosto della Francia, la critica non è ancora pronta per dei film per così diire ‘visivi’. è come se fossero ancora molto attaccati alla Nouvelle Vague, che per me è come se fosse una copia del Neorealismo italiano.

Ci sono dei film o dei registi italiani a cui sei particolarmente legato?

Beh è una domanda difficile, non saprei da dove iniziare. Anzi sì, lo so benissimo. Uno dei miei film preferiti è ‘Pinocchio’ di Comencini. In una delle scene iniziali si vede Geppetto che si mette a lavorare il legno, e non appena inizia, viene fuori un urlo. Ecco, credo che quella sia una delle mie scene preferite in assoluto.

Nel tuo ultimo film sei passato ad una forma che non avevi mai usato prima, quella del documentario, e per di più una sorta di documentario intervista a Noam Chomsky. Come mai? Non trovi che sia un genere limitante rispetto al tuo modo di raccontare le cose?

Il documentario mi ha sempre affascinato. Ma per come la vedo io è una forma altrettanto interessante. Quello che voglio dire è che non è affatto un modo neutro di raccontare, anzi. Ci sono molti lungometraggi che si definiscono documentari che hanno molto poco di neutrale, e in un certo senso ingannano lo spettatore. Ovviamente non sono la maggior parte, ma ci sono, e anche nel montaggio ho sempre cercato di essere il più sincero possibile. Certo, intervistare Chomsky non è semplice, lui è una specie di Einstein della linguistica, ha rivoluzionato il suo campo di ricerca e trovo il suo lavoro molto affascinante, anche se molto complicato. è per questo che volevo raccontarlo.

Hai già in mente qualcosa per il tuo prossimo lavoro, cosa dobbiamo aspettarci?

Ovviamente sì. Diciamo che porto sempre avanti dei progetti. Adesso ad esempio sto scrivendo questa storia per un film su due adolescenti. Ho riutilizzato una delle mie vecchie idee che consiste in una specie di trucchetto perché in teoria non sono abbastanza grandi per avere la patente, ma si inventano il modo di trasformare la macchina in una specie di casa per bambini, e quando arriva la polizia gli basta accostare per passare inosservati. Ho chiesto a Charlie Kaufman (suo amico e Premio Oscar per la sceneggiatura di ‘Se mi lasci ti cancello’) di darmi una mano. Vediamo che succede.

Allora buona fortuna e in bocca al lupo per i prossimi lavori.

Grazie, buona fortuna anche a voi.

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