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Tin Hat Trio

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Di un cappello di latta trovato per caso

Di Valeria Nicoletti

Violini allucinati, chitarre nomadi, un pianoforte e una fisarmonica. Può una storia d’amore tradursi in archi, un racconto di due esistenze farsi immagini di carta e sinfonia per organetto e tasti bianchi e neri? Sì, se a suonare è un bizzarro cappello di latta. Meraviglie dal mondo di youtube, principale dispensatore di stimoli quotidiani.

Tutto inizia quando, in coda alla mia playlist, un po’ di tempo fa, sono comparsi i Tin Hat Trio, giunti fin lì in virtù di misteriose affinità elettive con i miei gusti musicali, di solito ben poco eterogenei. Un copia e incolla veloce e su google scopro che i Tin Hat Trio sono un ensemble nato a New York in versione Trio, approdato a San Francisco nel 1995, composto originariamente da Rob Burger alla fisarmonica, Carla Kihlstedt al violino e Mark Orton alla chitarra.

Un giro su wikipedia, i paragoni degli onnipresenti blogger che chiosano da ogni angolo del web, i giudizi dei critici che sentenziano dall’alto delle loro enciclopedie virtuali, decretando somiglianze con la Penguin Cafè Orchestra, analizzando una musica ammaliata dal tango e dalla melodia klezmer più autentica, mah? Definizioni veloci, che occupano giusto lo spazio di una meta description. Etichette facili, ma poco soddisfacenti, le solite discografie che trasformano esistenze in elenchi e date.

Una battuta del Los Angeles Times recita: “Forget the definitions, and simply think of the music of Tin Hat Trio as compelling entertainment, rich with whimsy, imagination and intelligence”. Così chiudo ogni finestra. Premo play. E l’universo racchiuso in un cappello di latta invade due piccoli auricolari e io, per il tempo di una playlist improvvisata, mi dimentico di essere in un’annoiata biblioteca universitaria.

Tutto inizia con “Lauren’s Lullaby”, un instrumental mood, elegante e malinconico. Poi, dai sussulti del violino in “Helium”, sonata cerebrale e vibrante, alla nostalgica “Old World”, ballad romantica, dove a dialogare sono le chitarre e un archetto, passo di traccia in traccia, lungo una discografia che non segue alcun ordine cronologico, fino a tutta la tracklist di “Book of Silk”, album del 2004, uno dei picchi dell’intera carriera della band, che segna il ritorno del “cappello di latta” a un insonne vagare tra le note, un “metafisico languore”, un mix malinconico di entusiasmanti impennate e impreviste scivolate sui tasti del pianoforte, a metà strada tra la musica classica romantica e il folk più popolare, con tracce che più che melodie sono racconti, dal piglio ermetico e in levare, come la misteriosa The march of the smallest feet” e la struggente “Empire of Light”.

Un clic dopo l’altro, chiudo anche i libri e resto a guardare una musica che, almeno davanti ai miei occhi, sta prendendo forma, cercando invano una coordinata temporale, che oscilla tra note perdute di fine Ottocento e un sound meticcio tutto contemporaneo. Il suono è in divenire, si fa meno chiassoso e più raffinato, poi ritorna a inseguire le marce balcaniche, come in “O.N.E.O.” e di nuovo si rilassa giocando sulle onde di una fisarmonica, svaniscono i riflessi d’ottone delle bande e l’atmosfera si fa fumosa, come il dinner newyorchese dove Tom Waits si abbandona nell’intensa “Helium Reprise”, versione quasi sussurrata di “Helium”, traccia orchestrale e corale.

L’ultimo disco è “The Sad Machinery of Spring”, pubblicato nel 2007, una raccolta onirica di tracce, soprattutto strumentali, tra cui la sonata per violino The Secret Fluid of Deusk” e la languida The Comet” che incede regale tra violoncelli e chitarre, ispirate ai versi del surrealista polacco Bruno Schultz, imprevedibili variazioni su un tema poetico per un bozzetto espressionista, ritratto di un quartetto ispirato, che si addentra in curiosi divertissement con i toni gravi di “Daisy Bell” e le corde martoriate di “Black Thursday” . Per l’occasione i Tin Hat, non più trio, diventano cinque, con le incursioni dell’arpista Zeena Parkins, il polistrumentista Ara Anderson e Ben Goldberg al clarinetto.

Cangianti anche nella line-up, la formazione fissa è composta da Mark Orton, Carla Kihlstedt, Ben Goldberg e Rob Reich, ma i quattro, sotto il loro caleidoscopico cappello di latta, hanno accolto guest e amici musicisti in ognuno dei loro cinque album e in tutti i tour, dove, presenza quasi costante, è Anderson, musicista di base a San Francisco, virtuoso di strumenti a fiato come tromba e glockenspiel. È per questo, forse, che la loro musica viene definita ‘welcoming’, per un’attitudine innata a legarsi a ogni corda e a stare in bilico tra un’antichità sognante e l’avanguardia.

Tutti i musicisti del gruppo coltivano interessanti side project e carriere da solisti. La conturbante voce di Carla è presente anche nei The Book of Knots e cambia timbro e colore nel supergruppo rock americano Spleepytime Gorilla Museum. Di link in link, scopro che Carla Kihlstedt ha scritto una stage song ispirandosi agli esseri immaginari di Borges. Mi convinco, seppur con riluttanza, a riaprire wikipedia e ricomincio la mia ricerca, che, alla fine, fa tappa sempre in un negozio di dischi.

È lì che, davanti a un computer, leggo, ahimè, che tutti i dischi dei Tin Hat sono pubblicati da un’etichetta indipendente e, purtroppo, sono pressoché introvabili in Italia. Di conseguenza, chi ancora ha il vizio di comprare ancora i cd, come la sottoscritta, dovrà ricorrere ad Amazon, dove sono tutti disponibili. Una storia condannata alla presenza ingombrante di un monitor, unico e inevitabile tramite di un commercio tutto platonico di amorosi sensi.

Nell’attesa, anche del prossimo album, previsto per la seconda metà del 2012, youtube, come sapete, riserva molte sorprese e preziosissime chicche, registrazioni dai live (trovate “Sunrise” suonata all’Independence) e una bellissima versione da camera di “Willow weep for me”.

Infine, su vimeo, inatteso e splendido epilogo, si trova anche una storia d’amore a fumetti, illustrata da Brian Biggs e orchestrata dai violini dei Tin Hat. Questo, però, lo metto su facebook.

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